PROBLEMI E PROSPETTIVE DELL’UNIVERSITA’
Il 27 giugno a Napoli si è tenuta la Conferenza Universitaria Italiana di Architettura (CUIA) dove si riuniscono tutti i Direttori dei Dipartimenti di Architettura, Urbanistica e Design d’Italia per analizzare problemi e prospettive dell’Università italiana dal punto di vista delle discipline del progetto. Nel corso dell’evento è stato presentato il White Paper che contiene la posizione della CUIA riferita alle prospettive delle tre missioni universitarie: didattica, ricerca e terza missione. A me è stato affidato il compito di occuparmi di ricerca in questo particolare momento in cui le Università italiane si trovano tra l’incudine della riduzione dei finanziamenti pubblici e il martello di sistemi di valutazione sempre più farraginosi.
Di seguito il contenuto testuale del mio contributo.
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L’illustrazione dei contenuti del White Paper elaborato dalla CUIA e oggi messo a disposizione della comunità scientifica nazionale, inizia con il mio intervento. A me in particolare è stato affidato il compito riflettere sul tema della RICERCA.
Mi fa piacere incominciare questa mia relazione citando l’incipit del recente libro di Tomaso Montanari “Libera Università” edito da Einaudi: “Il momento non è qualunque“. Ed in effetti questo non è un momento qualunque, ma è un tempo che potremmo definire di crisi permanente – climatica, sociale, geopolitica, democratica – in cui, inaspettatamente, l’Università è tornata al centro del dibattito politico mondiale. Ma non per ciò che rappresenta o produce, ma per ciò che minaccia o smentisce!
In questi mesi i nostri campus sono stati in fermento. Studentesse e studenti, con a fianco i loro docenti, hanno messo in evidenza tematiche importanti: prima la questione climatica, poi il diritto allo studio, ora la pace minacciata dai folli venti di guerra di questi giorni. E’ un segnale potente, che ci ricorda quanto l’Università sia ancora percepita come luogo simbolico e concreto di elaborazione critica e di mobilitazione etica.
Contro questo risveglio si è alzato, tuttavia, un rigurgito populista e autoritario. In molte democrazie – più o meno consolidate – si sta registrando un attacco sistemico all’Università e alla sua autonomia. Negli Stati Uniti, con l’amministrazione Trump, si sta assistendo a un’esplicita delegittimazione delle istituzioni accademiche, accusate di “elitismo ideologico” e sottoposte a tagli ai finanziamenti, limitazioni ai visti per studenti stranieri e pressioni politiche. In Ungheria, il governo Orban ha imposto controlli sulle nomine accademiche e costretto, di fatto, molti docenti all’esilio. In Turchia, il presidente Erdogan ha operato trasferimenti di massa del corpo docente e imposto i Rettori in diverse Università.
Perché accade tutto questo?
La risposta è semplice, quanto drammatica: le Università danno fastidio. Sono, per loro natura, luoghi della complessità, del pensiero critico, dove maturano riflessioni divergenti dal pensiero dominante. In un tempo in cui si esige semplificazione, conformismo e luoghi comuni, il libero pensiero rappresenta un ostacolo. Nel nostro Paese, per fortuna, non si registrano – almeno finora – derive così eclatanti, ma sarebbe un grave errore cullarci in questa fragile normalità. L’Italia continua ad essere tra i Paesi europei che meno investono in istruzione universitaria: appena lo 0,6% del PIL, contro una media europea dell’1%. E non è un dettaglio: è la misura di una disattenzione strutturale e prolungata nel tempo! Gli effetti sono noti: precarizzazione delle carriere, fuga dei cervelli, innalzamento dell’età media dei docenti, scarsa attrattività internazionale, limitata autonomia finanziaria.
Le Università, schiacciate tra la riduzione del Fondo di Finanziamento Ordinario e la crescente pressione dei sistemi valutativi sempre più farraginosi, si trovano costrette a operare scelte difficili: rallentamento del turn over, tagli interni anche per le attività ordinarie, aumento delle tasse universitarie. Oppure si vedono costrette a intraprendere l’opzione salvifica: la ricerca di fondi esterni.
E qui veniamo al tema centrale di questo mio intervento: il fundraising come necessità, ma anche ambiguità.
In tutti i Dipartimenti italiani si è ormai instaurata una vera e propria cultura del bando. Non si tratta più solo di “eccellenza”: si tratta di “sopravvivenza”! La ricerca competitiva è diventata condizione necessaria non solo per finanziare progetti innovativi, ma anche per coprire le spese ordinarie come missioni, pubblicazioni, seminari, eventi, … In questo senso, la stagione dei finanziamenti straordinari – dal Next Generation EU al PNRR – ha rappresentato un’importante boccata d’ossigeno, ma ha condizionato pesantemente i comportamenti all’interno dei gruppi di ricerca.
Naturalmente non voglio dimenticare gli aspetti positivi che la ricerca competitiva porta con sè, oltre a quelli economici: migliora la capacità di lavorare in gruppo, di fare rete, aumenta il coinvolgimento dello staff amministrativo. Ma bisogna anche considerare che questo slancio verso il fundraising ha prodotto effetti collaterali importanti, che meritano la nostra attenzione critica.
Analizziamoli per punti.
- Ampliamento dei divari
Il primo effetto collaterale è l’accentuazione dei divari interni al sistema universitario:
- Divari generazionali: i più giovani, nativi digitali e “nativi da bando”, si muovono con maggiore agilità nella progettazione competitiva. I colleghi più anziani, formatisi in un contesto differente, appaiono disorientati.
- Divari geografici: le Università collocate in contesti territoriali forti, con economie dinamiche e reti consolidate, risultano più competitive rispetto a quelle del Centro-Sud.
- Divari strutturali: alcune sedi riescono a fare della ricerca un pilastro identitario; altre, pur con ammirevole dignità e profonda dedizione, faticano a mantenere livelli adeguati di didattica. Questo riapre la discussione – mai neutra – sui modelli: teaching university vs research university.
- Divari disciplinari: settori come medicina o ingegneria sono naturalmente predisposti alla raccolta di fondi esterni. Altri, come le scienze umane, risultano marginalizzati. Noi architetti ci troviamo in una posizione intermedia.
- Sovraccarichi di lavoro
La ricerca competitiva comporta fasi complesse: scouting dei bandi, formazione dei partenariati, scrittura progettuale, fino ad arrivare alla famigerata rendicontazione. Tutto questo grava non poco su un corpo docente già saturo di impegni in attività didattiche e scientifiche, ma anche su un personale tecnico-amministrativo spesso sottodimensionato, quasi sempre inadeguatamente formato (sono stati assunti con altre mansioni), e non di rado con età media prossima al pensionamento.
- Deriva aziendalistica
La logica del fundraising modifica, anche inconsapevolmente, le traiettorie di ricerca. Si orientano le scelte verso ciò che è finanziabile, non necessariamente verso ciò che è rilevante per l’avanzamento della conoscenza. I giovani ricercatori crescono in un sistema che li induce a selezionare temi spendibili. I bandi europei – quando virtuosi (e non sempre lo sono) – premiano sfide cruciali come la transizione ecologica, digitale, la coesione sociale. Ma in tanti casi, le agende dei finanziamenti sono dettate da logiche meno comprensibili, e l’attenzione viene posta più sulla tabella excel dei punteggi da raggiungere, piuttosto che sull’utilità scientifica o sociale della ricerca da applicare. Quante volte si sono ottenuti dei finanziamenti per la realizzazione di opere che si sono poi rivelate inutili se non addirittura dannose per gli stessi promotori (es. spese di gestione) o per i contesti urbani dove sono collocate?
Il rischio, dunque, quale è? L’abbandono dei temi non “bancabili”, semplicemente perché non hanno mercato. Lo sappiamo bene. Chi oggi finanzierebbe, ad esempio, una ricerca sulla suddivisione del comparto edificatorio nelle Norme Tecniche di Attuazione dei PRG? (non è una citazione a caso: è la mia tesi di dottorato!). Eppure, anche questi temi, apparentemente marginali, rappresentano un tassello fondamentale nella costruzione del sapere.
Conclusione
Non voglio concludere dicendo che la ricerca di finanziamenti esterni a quelli ministeriali sia il male assoluto da cui doversi difendere, è evidente che non sia così. Io stesso, nel mio ruolo di Direttore di Dipartimento, incito i miei colleghi al fundraising. Ma non è accettabile neppure la narrazione secondo la quale sia la soluzione miracolosa a cui tutti noi dobbiamo immolarci! Serve un atteggiamento consapevole. Un atteggiamento che non rinunci alle opportunità della progettazione competitiva, ma che non dimentichi i suoi effetti distorsivi. Bisogna pretendere che l’Università venga sostenuta adeguatamente dai fondi pubblici e che il fundraising esterno sia una componente aggiuntiva e non predominante per il funzionamento della complessa macchina della ricerca universitaria. Non possiamo accontentarci dei Dipartimenti di Eccellenza, gli unici ad essere finanziati in modo strutturale per sostenere tutte le componenti della ricerca universitaria, e neppure possiamo affidarci solo alla selezione “darwiniana” della competizione tra le sedi o addirittura tra i settori disciplinari.
Dobbiamo difendere – e pretendere – un investimento strutturale diffuso nel sistema universitario. Non solo in termini economici, ma anche di visione: programmazione, reclutamento, supporto amministrativo, valorizzazione delle diversità disciplinari. Dobbiamo rivendicare, con forza, il ruolo dell’UNIVERSITA’ PUBBLICA come presidio di libertà. E non dobbiamo lasciarci ipnotizzare da quel “mantra” che ci viene continuamente ripetuto: “non ci sono risorse, dovete cercarvele fuori.”
Ok va bene lo faremo, ma ricordiamoci che questo è il modello anglosassone d’oltreoceano fondato su grandi fondazioni, alumni multimilionari, una connessione strettissima tra Università, industria e potere economico. Facciamo attenzione perché in questo momento in cui l’Occidente sembra orientarsi acriticamente verso un aumento imponente delle spese militari, non vorrei che ciò giustificasse – magari tra qualche tempo – da un lato il perpetuarsi delle ristrettezze del finanziamento pubblico, e dall’altra l’ineluttabilità della ricerca orientata sulle tematiche belliche, quelle sì lautamente finanziate dalle multinazionali della guerra (a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca!).
Noi abbiamo una storia diversa!
Una storia che parla di sapere pubblico, di accessibilità, di pluralismo, di inclusione. Se esiste uno stile di vita europeo, molto si deve a questa matrice culturale, che è nata ed è stata custodita gelosamente proprio dalle nostre Università pubbliche.
A noi, dunque, il compito di continuare a difendere questo bene prezioso!